La crisi economica attuale

 

 

Che considerazioni faresulla crisi attuale?

 

La crisi attuale ha caratteristiche nuove: è globale, onnicomprensiva e oscura. Globale perché riguarda un assetto mondiale in via di transizione, onnicomprensiva perché partendo dall’impoverimento economico tocca tutti gli aspetti del vivere umano, oscura in quanto le cause e le dinamiche che la muovono non sono né chiare né tantomeno chiarite. Si può pensare ad una implosione del capitalismo, arrivato all’apice discendente della sua corsa, o alla concentrazione del potere mondiale in mano di faccendieri politici, o ancora a una lotta per le risorse del nostro pianeta. Certo è che nessuno sa o vuole spiegare cosa stia succedendo. I cittadini, più che edotti delle cause, si dibattono negli effetti.

Non avendo strumenti di economica politica, possiamo però esprimere un concetto di fondo, percepibile da tutti. La crisi attuale si accompagna ad una nuova mentalità, che mette in primo piano l’andamento economico, con tale drammaticità da inglobare il resto: nazionalità, culture, equilibri, teorie sociali, conquiste legislative. Le frammentate particolarità spariscono dentro il risucchio dei macro avvenimenti finanziari, che triturano e digeriscono valori e certezze. –E’ lo spread … è la crisi … è l’euro … - . sono risposte sommarie che evidenziano il dato economico, e scotomizzano una verità sotterranea, a mio avviso ancora più pericolosa: sta prendendo forza un nuovo modo di pensare e di catalogare gli eventi, una mentalità appunto, che in quanto vaga e inconsapevole, muove enormi energie.

Tale mentalità è partita da lontano, inverte il mezzo (disponibilità economica pubblica) con il fine (benessere della popolazione) e secondo la mia esperienza di psichiatra territoriale posso collocarla proprio alla soglia dell’attuale millennio. Si percepiva già nei primi anni 2000, dall’osservatorio dei servizi sociosanitari, un movimento inquietante, fatto di sottrazione di risorse e di svuotamento di interventi a sostegno di certe fasce di popolazione. Gli operatori si sentivano impotenti a reggere l’urto di un’onda anomala, costituita dall’arrivo di massicce necessità e di nuovi disagi, tanto più pressanti quanto più respinti.

 

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In che cosa consiste la nuova mentalità che sta sotto alla crisi?

 

La mentalità che serpeggia e che ora sta dominando può essere riassunta così: la riduzione delle risorse economiche impone una restrizione di diritti. Se prima si partiva dall’analisi dell’esistente per definire le misure d’intervento necessarie, in parole povere si evidenziavano le contraddizioni sociali per correggerle (la cosiddetta lettura o decodificazione della domanda), adesso il processo si è invertito: si parte da una presupposta carenza di risorse per escludere i bisogni sociali considerati esuberanti; escludendo parte dei bisogni individuai si restringe inevitabilmente l’area dei diritti collettivi. Si dice che è necessaria una spending review, tagli lineari, correzione dei bilanci dello stato, patto di stabilità, e così via, tutte cose di per sé anche corrette, se non fosse che vengono messe come postulati. definito “una proposizione che, senza essere dimostrata, si assume, o si richiede all’interlocutore di assumere, come fondamento di una teoria”. Se la crisi economica è inevitabile e se i tagli sono indispensabili, questo postulato influenza tutto il resto, qualunque sia l’oggetto del ragionamento, e il gioco è fatto. La povertà dei singoli e delle famiglie, le esigenze delle nuove generazioni, l’anelito alla conservazione di conquiste precedenti, l’equità, la democrazia, sono tutti temi secondari. Essi non contano partendo dai postulati iniziali, come un teorema che arriva a false conclusioni, partendo da assiomi errati.

Le conclusioni a cui stiamo arrivando sono evidentemente  negative. In politica stiamo congelando enormi risorse e riducendo oltremodo il welfare, nei sistemi bancari stiamo regalando massicce somme di denaro a copertura dei loro rischi, nella politica accettiamo che pochi dominino su molti, nel mondo del lavoro subiamo la competizione fino al parossismo, nell’economia continuiamo a calcolare anziché inventare. Ma tale mentalità finisce per inquinare anche la filosofia, la cultura, i mass media, l’animo umano. Sì, l’animo umano, che si nutre di fantasia, certezze, desideri, forme personali, relazioni vere, e che invece deve farsi silenzioso di fronte alla crisi economica, bocca famelica da nutrire.

 

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Che ne è del welfare state?

 

Un tempo, fino a non molti anni fa, gli individui sapevano di poter contare su una qualche forma di sostegno dello stato, in caso di caduta. Il cosiddetto welfare state, frutto di battaglie dure, aveva dato luogo a organizzazioni e servizi deputati a rilevare le necessità e approntare aiuti. Costituiva una copertura a tutte le fasce sociali, dall’infanzia alla vecchiaia comprensive degli adulti in età lavorativa. Possiamo simbolizzarlo così. La linea verde tratteggiata si pone come telone di raccolta per frenare la spinta emarginativa.

 

 

Sostenuta da forti spinte innovative e sindacali, la rete di aiuti doveva servire a far ripartire un soggetto o una famiglia, dopo la difficoltà, e comprendeva tra l’altro attenzione ai diritti della persona, cultura sulla qualità della vita, elargizione di sussidi di disoccupazione o terapeutici, aiuti per il mantenimento dell’abitazione, interventi sociosanitari domiciliari, interventi materno infantili, servizi per i senza fissa dimora, borse lavoro per i disabili, riabilitazione per gli svantaggiati, centri per la formazione professionale ecc., tutto un insieme di misure gestite dagli enti locali, che concorreva a creare un ombrello disteso a tutela dei deboli. Era sancito da leggi, ordinamenti, statuti, conquistati dagli anni ’70 in avanti. L’aiuto verso gli adulti in età lavorativa si riversava con beneficio sulle altre categorie ad essi collegati: bambini e anziani. Come non pensare che se un adulto regge gli urti dei fallimenti, tutta la sua famiglia se ne giova? Possiamo definire questa mentalità: evolutiva. Essa infatti mirava a far evolvere la persona, ad accompagnarla in avanti.

Poi piano piano la tendenza è cambiata e possiamo sintetizzarla con la seconda figura.

 

 

Le maglie si sono strette selezionando aiuti, interventi, soldi. La fascia deprivata è stata principalmente quella dell’età lavorativa, per cui gli adulti, minati nella loro rappresentanza sindacale e rivendicativa, privi di potere contrattuale, dopo aver perso ruoli socialmente riconosciuti, sono usciti dal welfare, si sono trovati senza ascolto. I requisiti per sussidi, aiuti, interventi, pagamento rette, riabilitazione sono diventati così sofisticati e cavillosi, da costituire di fatto un taglio netto a ogni aiuto. Qualcosa è rimasto per alcune categorie debolissime: bambini e anziani, ma anche qui solo se i bambini hanno problematiche molto gravi e se gli anziani non sono autosufficienti.  Come a dire che solo per i soggetti ormai decisamente fuori dal mercato, lo stato elargisce un minimo beneficio di compenso. Per tutti quelli che in qualche modo sono ancora ipoteticamente dentro un’ illusione di mercato, niente. E anche per i malati, i tossicodipendenti, gli psicotici, gli invalidi, il welfare sta finendo, imponendo certificazioni sempre più severe per stabilire il grado, non del ricupero, ma della totale cronicità. Esempio di questa mentalità è l’atteggiamento verso le pensioni di invalidità civile, dove si toccano apici di ipocrisia, proprio in un settore dove quasi sempre il misero assegno rappresenta una fonte vitale di sopravvivenza in soggetti già provati da disabilità e malattie, seppure non sempre estreme.

Si crea quindi una terra di nessuno, una bolla di adulti senza rete, un esercito di deboli senza definizione, e per questo senza risposte. Essi si trovano esposti a ogni conseguenza, soli, spesso stigmatizzati e sottilmente esecrabili.  I settori protetti da ciò che resta del welfare sono stretti e rigidi, collocabili in settori già espulsi dal sociale.

Possiamo definire tale mentalità: selettiva. Essa tende a incasellare, circoscrivere, separare, soggetti e fasce con etichette, stabilendo difficili competenze che spesso vanificano il risultato. Il soggetto debole non può aspettarsi un accompagnamento verso l’alto, può solo affannarsi a ricollocarsi dentro una categoria, da cui raramente ricava stabili vantaggi. La crisi acuisce tale mentalità perché, ponendo il denaro al vertice dell’interesse, deve selezionare le risorse.

 

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Che conseguenza psicologica deriva dalla attuale mentalità selettiva?

 

Le conseguenze sono evidenti. La  mentalità selettiva stabilisce due spazi: quello di chi sta dentro il mercato e quello di chi sta fuori. Chi sta fuori vive una condizione penosa di esclusione e impotenza, così alta da portare alcuni a togliersi la vita. Ma chi sta dentro teme continuamente di avvicinarsi al bordo del baratro, che è l’unico spazio alternativo nel sistema. E’ proprio tale area di confine, a cui ciascuno potrebbe essere destinato, a creare pesanti sentimenti emergenti di paura, ansia, depressione: la gente soffre in famiglia, sul luogo di lavoro, operai o dirigenti, agiati e meno agiati, per il terrore di avvicinarsi alla fine dello spazio consentito, altre il quale c’è la possibilità di caduta sociale. E non esistono mezzi per controllare tale rischio: non conta essere esperti, essere bravi nella propria mansione lavorativa, essere onesti, essere grandi lavoratori. Il cosiddetto stile Marchionne mette tutti in allerta attraverso un mutamento delle condizioni di lavoro dove non si sa più cosa conti davvero per sentirsi sicuri. Potrei portare moltissimi esempi di persone venute in terapia per angoscia da lavoro; tutte si sentivano vicine al confine del baratro, vero o presunto, generatore di instabilità e disistima. Sono loro che parlano dello stile Marchionne, riferendosi alla vanificazione progressiva dei diritti del lavoratore e all’emergere di una nuova classe dirigente spregiudicata e fredda. Naturalmente lo stato ha contribuito in abbondanza a creare tale situazione fluttuante, attraverso tutti gli sciagurati provvedimenti sulla precarietà del lavoro, sulla vanificazione della forza delle organizzazioni dal basso, sul blocco del flusso occupazionale. Più il lavoratore è debole più viene sfruttato, più viene sfruttato più cresce la precarietà, più cresce la precarietà più il lavoratore è debole: una spirale autoalimentata. Il precario non sa quando verrà lasciato a casa, l’operaio non sa quando la ditta chiude, il professionista non sa quando cesserà la richiesta, il dirigente non sa quando verrà rimosso. Appunto non sanno. Sanno però che oltre c’è il confine dello spazio legittimato dal lavoro: questa è la base di tutti i disagi psichici causati dalla attuale crisi economica, lo scivolamento verso il pericolo oltre il quale non sembra esistere ammortizzatore.

 

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Come reagiscono le persone che si trovano sul bordo tra lavoro e non-lavoro?

 

Oggi tutti ci sentiamo spinti verso tale bordo di non ritorno, e questo genera un’angoscia serpeggiante che caratterizza il momento storico. Dice bene Zygmunt Bauman (Il demone della paura, Laterza, 2014): “L’esclusione oggi non è percepita come l’esito di una cattiva sorte momentanea e rimediabile, trasuda un’aria di sentenza inappellabile, una strada a senso unico”. Dalla mia esperienza di psicoterapeuta l’angoscia dettata da tale selezione dentro/fuori prende prevalentemente due strade, che si possono definire: di fuga o di attacco, le due reazioni al pericolo. In nessun caso la crisi viene sottovalutata, i soggetti ne sono perfettamente consapevoli, anzi ne enfatizzano la portata, aiutati da mass media sadici, che sembrano godere delle catastrofi, e dai propri vissuti emozionali.

La strada di fuga è quella di chi si chiude in se stesso, per pararsi dal pericolo: ansia, depressione, astenia, sfiducia, insonnia, incapacitazione e confusione ne sono gli effetti. Si tratta quasi sempre di persone oneste, con buoni ruoli lavorativi, che sentono avvicinarsi la precarietà e la fine del loro ruolo, sia per una reale crisi del loro settore, sia identificandosi nella crisi altrui. Il lutto futuro viene anticipato da fantasie negative, quasi a premunirsi dal dolore possibile, introiettandolo. La conseguenza in questo caso è un esagerato senso di impotenza e l’assunzione di colpe su se stesso. Il lutto è vago, ripetitivo e non può essere elaborato, per cui i soggetti con il loro ritiro sociale e l’esagerata sottomissione, potrebbero addirittura favorire la loro ipotetica espulsione dal contesto lavorativo. In chi non sta lavorando questa depressione spinge alla rassegnazione, smettendo di cercare una collocazione.

La strada di attacco è quella di chi si affanna per agire, mostrarsi, imporsi, anche a costo di sgomitare o di sfiancarsi: stress e isolamento affettivo ne sono gli effetti. Si tratta in genere di persone ambiziose, capaci, attive, di età media, che sentono di voler restare sulla breccia a tutti i costi, mentre l’edificio vacilla. Essi aumentano la compiacenza ai capi, sottostanno ai loro capricci o sbalzi di benevolenza, riducono la solidarietà con i pari, verso cui accentuano la competizione, e possono mettere in crisi legami amicali o affettivi, dando priorità allo sforzo di affermazione. Qui il rischio, a parte la difficoltà a mantenere relazioni accettabili sul lavoro, è quella di esporsi a cadute inaspettate. Non è detto che la compiacenza garantisca dall’espulsione, ma quando dovesse avvenire il soggetto è meno preparato, essendosi illuso del favore raggiunto, e potrebbe cadere in una crisi acuta senza aver approntato i mezzi interiori per affrontarla.

 

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E chi si trova fuori dal mondo produttivo?

 

Parliamo in primis di giovani e di donne, ma anche di cinquantenni o di persone con deboli life skills. Essi non possono basarsi sul ruolo lavorativo per crescere come cittadini. Non ricevono un compenso economico per le loro attività. Non sono dentro una struttura produttiva. Spesso non la sperano più. Stanno in uno spazio esistenziale simile ad un non-luogo cercando altre legittimazioni. Per fortuna da tempo il lavoro non è più considerato il ruolo di riconoscimento principale, a partire dagli studi della fine degli anni ’80. I giovani da circa trent’anni hanno incominciato a non riconoscersi più esclusivamente nell’attività lavorativa, ricevendo da altre fonti rimandi sul loro esistere civile. Basti pensare a tutte le forme di aggregazione giovanile, ai mille volti del volontariato, a una certa dissacrazione delle istituzioni, e a valori incerti ma nutrienti con cui moltissime persone sanno sostenersi dentro l’appartenenza a micro gruppi locali o ai mega gruppi della rete virtuale. Se prima la trama lavorativa era l’intelaiatura su cui si costruivano i progetti di vita, ora tale trama è lassa e dissacrata dalle istituzioni prima che dai singoli, e viene sostituita da una condivisione a breve raggio, basata sul sentire presente, più che sul progettare futuro. La globalizzazione, che ha contribuito alla crisi, può diventare anche il respiro nuovo con cui aprire possibilità e speranze. Il confine del proprio mondo si è spostato al mondo, accentuando le paure, ma anche inserendo nuovi vissuti collettivi, da cui si potrà alimentare un cambiamento.

 

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Quale filo di luce si apre nella crisi?

 

Ogni crisi è uno scompaginamento che rompe rigidità e solleva energie. Confonde, lacera, ma apre possibilità nascenti. Il confine dei nostri piccoli mondi sta per essere sostituito da un confine globale del pianeta. Una rivoluzione non da poco. Sacche di silenzio, da parte di emarginati esclusi, si fanno voce. Ingiustizie inveterate in alcune regioni della terra inquinano conquiste raggiunte in altre regioni (penso ad esempio alle discrepanze di trattamento economico tra i continenti o alle diverse culture legislative). La povertà muove popoli migranti e mescola le razze. La negazione di guerre lontane o di sofferenze nascoste non è più possibile,  nel momento in cui tali eventi sono alla portata di tutti. E allora gli individui si misurano con nuovi meccanismi sociali e anche psicologici. Come in un singolo soggetto il dolore può essere lenito con un processo detto rimozione, e se questo non basta viene stemperato dalla proiezione o dalla sublimazione, così la collettività oggi, che non può rimuovere ciò che è palese, può ricorrere a tali due meccanismi difensivi. Il primo, la proiezione, è più arcaico e consiste nell’attribuire all’esterno i sentimenti personali. La rabbia e l’angoscia trovano in un nemico, individuato nel contesto di vita, l’oggetto cattivo. Ecco allora insorgere ideologie difensive, razzismi, ragionamenti semplicistici e ostili, caccia alle streghe, tutte cose frequenti in periodi di recessione e cambiamento. Tale meccanismo può dar luogo a tentativi estremi di chiusura, a guerre improprie, che non raggiungono lo scopo sperato in quanto non incidono sulle vere cause, che possono anzi acuirsi. L’altro meccanismo, la sublimazione, è più maturo e consiste nell’incanalare le pulsioni verso direzioni accettate culturalmente. L’angoscia si fa arte, inventiva, forma inusuale da cui trarre crescita. E’ la ricerca di nuovi modi di pensare e di organizzare le risorse, e non per escludere i “cattivi” ma per inglobare l’intera comunità in un progetto superiore. E’ quello che molti chiamano l’etica della globalizzazione, per imporre i valori fondanti di tutti gli uomini sulla terra. Occorreranno anni, forse decenni per arrivare a un assetto nuovo. Noi siamo spettatori di tale processo e dobbiamo, ognuno a modo proprio, diventarne anche protagonisti.

 

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Cosa fare?

 

Essendo la crisi un processo in corso, nessuno ha ricette, né verità, ma solo direzioni, fili di luce che conducono avanti. Posso dire che i due fili di luce che mi sembrano delinearsi sono: da un lato la ricerca della verità e dall’altro il posizionamento del proprio baricentro.

La ricerca della verità. Non possiamo scegliere dove incidere col nostro operato se non mettiamo a fuoco le vere cause della crisi. Per questo motivo dobbiamo informarci e non smettere di cercare le fonti attendibili, in quanto la crisi attuale è anche costituita da una massiccia mistificazione dei processi sottostanti alla povertà. Non accontentiamoci di notizie giornalistiche, di slogan, di sommarie interpretazioni, che spesso derivano proprio dal meccanismo primitivo della proiezione, attraverso cui un’entità viene presa a parafulmine del tutto. Confrontiamo opinioni diverse, leggiamo testi di pensatori e economisti di fama, sviluppiamo la capacità critica di pensare con la nostra testa e il nostro intuito. Giudichiamo le teorie dai fatti e non dalle emozioni che suscitano, approfondiamo le questioni finanziarie, senza le quali non comprendiamo l’esistente. Non è facile, può essere faticoso, ma ci mancano griglie di lettura, perché quelle che possediamo sono ormai vecchie, e abbiamo bisogno, specie i giovani, di sapere le dinamiche socioeconomiche che muovono le nostre vite. E’ un dovere studiare, capire. Forse arriverà un grande pensatore, che darà corpo alle nuove verità e le mostrerà nella loro semplificata essenza, come successo in certi momenti della storia, dove un filosofo o un sociologo ha saputo coagulare in una teoria unitaria i frammenti sparsi della modernità. Fino ad allora ognuno sia artefice della sua verità, cercata con pazienza e rispetto, senza generalizzazioni né pregiudizio alcuno verso chicchessia.  

Il posizionamento del proprio baricentro. Le estreme incertezze sociali possono spazzare via i deboli equilibri individuali, specie se essi sono fragili già in partenza. Mi riferisco alle insicurezze di molte persone, che traggono dall’esterno la propria autostima. Tali soggetti vivono di rimandi altrui, e per garantirseli mettono al primo posto l’apparire o il fare, cercando in ogni modo di ricavare plauso dalla loro immagine o dai risultati dimostrati. Nel momento in cui la crisi appanna l’immagine o spezza il fare, essi si trovano esposti a disistima e sviluppano vari disagi psicologici o somatici legati alla caduta di valore. Allora è indispensabile riposizionare il proprio baricentro, non legato al fare ma all’essere, ricuperare il senso fondante della propria unicità, da cui deriva un dialogo interno protettivo, una solida autostima e una volontà sana di difendere i propri diritti. Inoltre il ricupero dell’autostima, intesa come rispetto di sé, facilita il rispetto degli altri e predispone a battaglie collettive ragionate. Il modo di percepirsi è alla base del modo di pensare e agire. Un percepirsi dipendente porterà a un pensare conformista e a un agire passivo. Un percepirsi autonomo porterà a un pensare libero e a un agire mirato. Nessuna crisi può togliere la certezza del valore individuale, in quanto essenza interiore, qualunque condizione sociale modifichi o imponga.