Il femminicidio

 

 

 

I femminicidi oggi

 

Il femminicidio è un fenomeno in aumento?

 

Il termine femminicidio è recente (1992) e deriva da considerazioni della criminologa Diana Russell, che riconosce nella violenza di un uomo contro la donna in quanto donna una tipologia di reato a se stante. Da un lato esso è da inserire nel fenomeno generale degli omicidi, che negli ultimi tempi sembrava mostrare in Italia una flessione. Basti pensare che nel 2012 si sono registrati 526 omicidi, il 67% in meno rispetto al 1990, quando essi furono 1633. Anche gli omicidi in famiglia dal 2000 avevano assunto un andamento decrescente.


Omicidi in famiglia 2000-2008 secondo il Rapporto

EURES-ANSA, Ricerche economiche e sociali 2009


Invece il 2013 segna un incremento dei femminicidi, con 134 donne uccise nel corso dell’anno, rispetto alla media di 116 dei nove anni precedenti. Lo conferma un’indagine sul femminicidio in Italia, condotta da un gruppo di volontarie della Casa delle donne di Bologna, resa pubblica in occasione dell'8 marzo, Giornata internazionale delle donne. Questo fenomeno ha dunque un incremento evidente, riportato dai media con giusto orrore. La maggior parte dei femminicidi/suicidi è avvenuta al Nord Italia (47%), seguendo un andamento geografico che è presente in tutti gli omicidi in famiglia: 45,6% al Nord, 21,6% al Centro e 32,7% nel Sud e isole. Sembra che proprio nelle zone maggiormente industrializzate e sottoposte alla frammentazione economica, il nucleo famigliare sia esposto ad agiti distruttivi.

Nella maggior parte dei casi l’arma utilizzata dall’uomo è un’arma da fuoco, acquistata i giorni precedenti, avvallando una premeditazione del gesto, più che un raptus impulsivo, che comunque resta prevalente nei casi di uccisione con arma da taglio. Il mezzo usato denota la volontà non solo di eliminare l’altro, ma di sfregiarlo, distruggendone l’identità, quasi a volerlo del tutto cancellare.

Si tratta per lo più di uccisioni da parte del partner (marito o fidanzato o ex) nel momento in cui la donna si sottrae alla relazione o si ribella ad alcuni suoi presupposti e spesso avvengono sotto gli occhi della prole.

 

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Che cosa c’è nella nostra società che fa innalzare l’incidenza di tale violenza?

 

Penso che il maschio arrivi a distruggere la sua femmina perché ritenuta una proprietà. Ella è un oggetto da tenere e bistrattare, comandare e violentare. Sono emblematiche le uccisioni che avvengono su prostitute (13 nel corso del 2013), che per il loro ruolo si pongono esse stesse come merce. Si parla in questi casi di femminicidio invisibile, perché non emerge con lo stesso scandalo di altre uccisioni. Eppure le uccisioni delle prostitute si pongono all’ultimo grado di una violenza cronica sulle vittime, già iniziata nel momento in cui di loro si sfrutta l’aspetto intimo femminile, dentro una logica di profitto e di prevaricazione quotidiana. Nella maggior parte dei casi non si tratta di prostitute, ma di compagne di vita. In questi casi è proprio il legame privilegiato a portare il maschio a imporsi sull’altra, al punto da non tollerare ribellioni o libertà di scelta. Il maschio diventa un dominatore assoluto, che pretende di tenere con sé la donna anche quando l’amore è finito o la relazione è altamente problematica. Non dimentichiamo che anche la donna può arrivare ad uccidere il partner, seppure in una percentuale molto più bassa, sempre dentro una logica maturata dopo frustrazioni di abbandono e di tradimento.

In tutti i casi sembra che l’oggetto di possesso permetta di scaricare su di esso frustrazioni, attese, rabbie, ideali, bisogni. In parole povere si tratta di un legame simbiotico.

 

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Che cos’è una simbiosi?

 

Per simbiosi intendiamo una relazione tra due persone in cui una, o entrambe, ha necessità dell’altro che lo compensi, senza il quale perderebbe non solo un legame ma un pezzo di sé. La simbiosi è la spiegazione psicologica del legame malato, che sta a mio avviso alla base di gran parte dei femminicidi. Non si tratta di amore, il termine abusato dai mass media fa rabbrividire. Smettiamo a di dire: ha ucciso per troppo amore. Si attribuisce il valore di un sentimento a valenze patologiche. L’amore è fatto di passione, di voler bene e di comportamenti altruistici: nessuno di tali elementi è presente nei casi di reato.

Il possesso è strettamente legato ad un bisogno. Tutti i beni che aneliamo a possedere contengono una necessità, vera o presunta. L’oggetto in questi casi non è solo usufruito, ma diventa parte dell’Io, da cui trarre soddisfazione, immagine, sicurezza. Nel momento in cui tale oggetto se ne va, l’Io vacilla al punto da sentirsi implodere, con una rabbia primordiale, come se fosse questione di vita o di morte: vita mia e morte tua o morte di entrambi. Con la morte si sancisce una specie di legame illusorio, sia nel caso di omicidio/suicidio, in cui la diade si ritrova nel nulla che la inghiotte, sia nell’omicidio puro con cui si rientra in possesso dell’immagine vagheggiata, che non potrà più essere posseduta da alcuno. Quindi l’uccisione ribadisce la necessità della simbiosi.

La simbiosi è considerata un fatto naturale solo nel bambino piccolo, che dipende dalla nutrice, poi la crescita permette di raggiungere l’autonomia dell’adulto, con cui non ci dovrebbe essere necessità di alcuna simbiosi relazionale: l’amore per chi è autonomo rappresenta un legame tra esseri maturi, forte o passionale, ma sempre sancito da confini personali. Chi arriva a uccidere si trova invece in una condizione di simbiosi primaria, come se fosse regredito a fasi infantili, quando l’altro rappresenta la fonte della vita, del nutrimento, della cura, e senza il quale c’è il nulla. La simbiosi non solo permette di sopravvivere, in chi ne ha necessità come l’infante, ma rappresenta anche un luogo onnipotente dove stare al centro della relazione. Il bambino deve sentirsi importante per sapere di esistere e, se non lo fanno sentire tale, si dispera, grida, fino a richiamare comunque l’attenzione. Tale comportamento di richiamo estremo in un adulto può diventare aggressività, stalking o violenza, cioè l’ultimo grado patologico di fusione di confini, con cui riprendere l’altro dentro il possesso.

 

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Perché oggi i maschi dovrebbero avere più propensione al possesso e alla simbiosi affettiva patologica?

 

Forse in una società sempre più anonima, dove ciascuno fatica a trovare uno spazio di legittimazione, si perdono ruoli e compiti con cui rinforzare e definire la propria identità di uomini civili. La scuola, il lavoro, i progetti sociali diventano ambiti stretti, imbuti dove le persone vengono selezionate, usate e poi espulse senza regole certe. Gli ambiti principali del vivere collettivo non sono peraltro uniti da un comune cammino. Si può completare bene la scuola e non trovare lavoro; si può trovare lavoro ma fuori da un progetto esistenziale; si può iniziare un progetto e perderlo per strada a causa di eventi sovrastanti, che travolgono desideri e motivazioni. Il vuoto della crisi economica e valoriale risucchia le deboli identità, già minate da una perdita di radici, e ogni individuo cerca disperatamente qualcosa che lo legittimi ad esistere, che lo rinforzi nel bisogno di riconoscimenti. Dove trovarlo? Se il gruppo allargato non lo offre più, ecco allora che solo il gruppo ristretto, la famiglia o meglio ancora la coppia, può diventare un luogo esuberante dove trovare tutto ciò che si è perso.

L’amore diventa totale, disperato anelito al ricupero di diritti, più che all’esplicitazione delle proprie capacità affettive. Si inverte il vettore: l’amante non è colui a cui dare il frutto del proprio Io, ma la fonte a cui chiederlo, un cibo da mangiare, un’acqua con cui dissetarsi, pena la fine di sé. Così la donna amata è nutrimento essenziale e in quanto tale preteso. Lei diventa il sostituto di tutte le legittimazioni che la società dovrebbe poter elargire in misura uguale ai suoi figli,e che i figli non trovano. Essi vengono rinnegati, sono troppi, troppo poco preparati, troppo poco intelligenti, troppo poco dotati di strategie difensive, troppo poco conformi al modello cannibale della finanza, troppo deboli di potere. Tutto questo “non essere” viene riversato nella relazione amorosa a cui l’uomo sconfitto chiede di diventare: unico, importante, speciale, col massimo potere. Se la donna si ritira, sembra sfuggire tutto quello che le era stato attribuito con investimento patologico, e la conseguenza è una rabbia feroce, un’angoscia panica di essere risucchiati via dal mondo. A tali emozioni si può rispondere con un gesto di sopravvivenza animale.

 

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Cosa succede nel cervello dell’omicida?

 

Il nostro cervello di fronte al pericolo ha reazioni istintive di sopravvivenza. Se l’individuo, nel corso del suo sviluppo, è stato educato ad integrare gli impulsi con i ragionamenti, ossia la sfera emotivo-primordiale con la sfera cognitivo-etica, diventa in grado di reagire in modo consono, dosando la paura e rispettando le leggi; di fronte ad un cambiamento brusco che lo spiazza, sente forti emozioni ma sa incanalarle dentro comportamenti civili. Se invece l’uomo non ha operato questa integrazione, resta esposto a rischi di fratture: di fronte ad un pericolo estremo, in questo caso di essere vanificati, può attivare le strutture più arcaiche, l’encefalo primario o rettiliano, capace solo di distinguere il bene dal male, la vita e la morte. Tali strutture primordiali funzionano per estremizzazioni, bianco e nero: il bianco è il legame, il nero è la rottura del legame. E allora, se la donna libera sceglie di sottrarsi al cosiddetto amore, resta solo il nero della disperazione e dell’aggressione, perché il bianco è svanito e le sfumature non esistono nella mente malata e primitiva dell’uomo sopraffatto. A questo proposito voglio ricordare le parole di Rita Levi Montalcini (intervista del 1-3-2009) “Quello che molti ignorano è che il nostro cervello è fatto di due cervelli. Un cervello arcaico, limbico che non si è praticamente evoluto da tre milioni di anni fa ad oggi, e non differisce molto tra l’uomo sapiens e i mammiferi inferiori. Un cervello piccolo, ma che possiede una forza straordinaria. Controlla tutte quelle che sono le emozioni. Ha salvato l’australopiteco quando è sceso dagli alberi permettendogli di far fronte alla ferocia degli ambienti e degli aggressori. L’altro cervello è quello cognitivo, molto più giovane. E’ nato con il linguaggio e in 150 mila anni ha vissuto uno sviluppo straordinario, specialmente grazie alla cultura. Si trova nella neocorteccia. Purtroppo buona parte del nostro comportamento è ancora guidata dal cervello arcaico. Tutte le grandi tragedie sono dovute alla prevalenza della componente emotiva su quella cognitiva. E il cervello arcaico è così abile da indurci a pensare che tutto questo sia controllato dal nostro pensiero, quando non è così.”

Le parole della grande scienziata ci fanno capire come certi drammi feroci dipendano da squilibri della psiche, legati al prevalere, dentro la mente, della componente primitiva rispetto alla componente evoluta. Quest’ultima deve lentamente predominare sugli istinti, è un cammino individuale e collettivo mai concluso, un obiettivo a cui l’educazione, la legislazione e la cultura dovrebbero tendere come loro scopo primario.

 

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Uccidono solo i maschi?

 

Il perché avvengano più omicidi di maschi verso le femmine, rispetto al contrario, forse è legato alle diverse inclinazioni del maschio e della femmina: il primo da secoli immemorabili si riconosce maggiormente nel fare attivo e corporale, nei riconoscimenti di ruoli sociali, quelli che oggi mancano; la femmina sa nutrirsi delle relazioni intime amicali e famigliari, maggiormente propensa al sentire, e forse in tale luogo dell’anima, più che del corpo, trova lenitivi alle oppressioni sociali. Si può però anche pensare che la simbiosi venga ricercata, da entrambi i sessi, con un essere più debole, che garantisca il legame di possesso: il maschio rispetto alla femmina, la femmina rispetto alla prole. Ecco allora che si spiegano i femminicidi dei maschi ma anche gli infanticidi delle femmine. I maschi infieriscono sull’essere debole, che è la donna, a cui chiedono un’ immensa oblazione, per sentirsi padroni dello spazio affettivo. Le femmine infieriscono sull’essere debole che dipende da loro, in questo caso il figlioletto, su cui riversare la rivalsa di potere assoluto. Tutti questi reati sono ascrivibili probabilmente ad una sovra estimazione dei legami intimi, percepiti e voluti come simbiotiche fonti di sussistenza. In questo senso solo educando al rispetto delle altrui individualità e sancendo con leggi moderne i diritti delle donne e dei bambini, si potrà sperare che tali fasce ancora troppo “deboli” possano uscire dai frequenti legami sadici che talora precedono un reato.

 

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Può l’organizzazione sociale aiutare a prevenire?

 

Per educare alle sfumature e alla gestione delle frustrazioni, capacità che sole salvano dall’abbrutimento, occorre un lungo cammino relazionale, che parte da lontano. Occorre formare individui con un Io solido, con ottima consapevolezza del proprio valore, con autonomia di scelte, con raziocinio che stempera le angosce. Occorre dare ai bambini il senso di un sé riconosciuto dentro relazioni affettive stabili e calde, che li aiuti a costruire un’identità sicura e a padroneggiare in modo creativo gli adattamenti a circostanze sempre mutevoli. Ma occorre anche che l’organizzazione sociale permetta un continuo rinforzo di tale stabilità, con un’equa distribuzione di ricchezza, che non è solo monetaria ma di ruoli utili alla collettività. Solo se le carezze (intese come riconoscimenti umani) potranno arrivare da più fonti, si diventerà certi dell’appartenenza collettiva, e si potrà vivere l’amore duale come una delle tanti componenti dove riconoscersi.

Lo specchio con cui l’individuo guarda se stesso, per ricuperare un’immagine positiva, non deve essere solo la donna amata e intorno a lei il vuoto, ma deve diventare la somma delle relazioni civili di cui è fatto il nostro vivere insieme. Allora la fine dell’amore porterà via solo un pezzo dei propri progetti, eliminerà solo una parte della soddisfazioni, indebolirà solo un aspetto della propria identità interna. Il resto manterrà la sua solidità, consci di poter riprogettare altrimenti.

Dunque non si può parlare di femminicidi come fatti privati. Essi sono fatti collettivi e testimoniano con le loro brutture la presenza di elementi distorti nella nostra società moderna. Devono essere affrontati non solo con sanzioni, moralismo o ricerca di capri espiatori. Devono diventare un monito da cui ripartire per riflessioni allargate di tipo anche politico e per il riposizionamento, il più in fretta possibile, di nuove forme di valorizzazione degli individui.

 

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Quale cambiamento augurare ai maschi?

 

Per uscire da una logica egoistica occorre un percorso di crescita emotiva. Nessun cambiamento sociale può sostituirsi a una scelta interiore, derivante dalla responsabilità dei singoli, può solo facilitarlo. Il primo passo è che il maschio si renda conto della gravità di certi comportamenti, e si fermi al primo segno di aggressività etero diretta, o anche solo alla fantasia di attuarlo. I gesti sono la conseguenza di una volontà e la volontà deriva da una intenzione. Come diceva il grande filosofo Brentano l’intenzionalità è un fenomeno mentale con cui ci si riferisce ad altro da sé, a un oggetto da amare o da odiare. E’ vero, l’oggetto è altro da sé, sta in un luogo e tempo suo, e ha un confine che nessuna passione può violare o a cui nessuna rabbia può sottrarre il diritto di pensare-sentire-scegliere a modo proprio. Rispetto a tale oggetto l’uomo innamorato può desiderare, tendere verso, ma non può mai inglobare e smembrare, pena la vanificazione dello stesso amore e dello stesso odio, sentimenti che sussistono solo nella relazione tra due entità distinte, e che una fusione patologica può trasformare in delirio emotivo, con tutte le conseguenze possibili.

Il maschio sappia ricuperare la sua vera intenzionalità e la sappia padroneggiare, conscio di una forza personale che deriva da lui solo e con la quale può investire o disinvestire l’oggetto bramato di valenze ideali. Voglia il maschio crescere e non regredire a fasi primarie di sviluppo, quando le intenzioni erano solo istinti di sopravvivenza, e voglia prendersi cura delle proprie capacità mature di giudizio che, poggiando sulla consapevolezza adulta, permettono di sviluppare insieme il controllo e la libertà.

Non ci sono scusanti alla violenza, essa è un atto volontario. Non si sono attenuanti da ricercare nell’abbandono amoroso o in vecchi traumi infantili o nella disperazione di momenti difficili. Ferire e danneggiare un altro essere umano è un torto gravissimo, da sancire e da riparare. E’ anche vero che per una buona prevenzione occorre interpretare le dinamiche dei reati, senza stancarsi di ragionare sui punti nodali dove il comportamento del maschio avrebbe potuto prendere una svolta, verso la distruzione o verso la salvezza. In tale punto nodale troveremo sempre una dinamica psicologica, ed è responsabilità di tutti  comprenderla per agire di conseguenza, trasformandola in leva per una crescita culturale.

 

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Quale cambiamento augurare alle donne?

 

Le donne sono vittime per debolezza, per circostanze e in parte per loro responsabilità Per debolezza, vista la sproporzione di forza con l’aggressore, in genere dotato di maggiore potenza fisica, ma anche di mezzi economici e in certi ordinamenti giuridici (delitto d’onore del passato) di attenuanti. Per circostanze, vista la necessità talora di restare legate al padre dei propri figli o al compagno violento, per scarsa solidarietà  familiare, per solitudine o per indifferenza degli enti preposti alla sicurezza. Per responsabilità propria, a causa di una scarsa autostima, che fa credere lecito pagare un prezzo all’amore. Spesso proprio sulla disistima infierisce l’aggressore, ben prima di ferire e di uccidere. L’uomo violento in genere già da tempo ha minato la gioia e la fierezza della donna, violentandola, svalutandola, colpevolizzandola, isolandola dalle sue amicizie, convincendola che il suo brutto carattere non le consente aspirazioni maggiori. Lui, il persecutore, si è già posto da tempo come una specie di salvatore, che domina quella femmina incapace. Oppure oscilla tra salvatore e vittima, facendo credere di aver bisogno di lei, e dandole con questa richiesta simbiotica, una importanza illusoria e pericolosa. Lei, la donna minata nell’autostima, può quindi rimanere legata ad un uomo onnipotente, forte e debole insieme, che nutre il masochismo malato della compagna e anche il suo bisogno materno di accudire.

La donna non cada mai in tali tranelli. La sua stima sia piena, potente, scevra da eccessivi compromessi affettivi. Sappia custodire i suoi confini di identità, senza farsi allettare da forze inconsistenti, e neanche da debolezze ricattatorie. Sappia restare salda nel suo baricentro di essere umano autonomo, a cui l’amore non deve togliere gioia né respiro. L’innamoramento è quasi sempre uno sconvolgimento, una specie di malattia, è bello e inquietante per questo. Ma si accompagna a fatti, comportamenti, che l’intelligenza deve sempre valutare nei suoi dettagli e risvolti, per intuire le conseguenze e fermarsi in tempo. A volte sarà facile, a volte difficile. Occorre non isolarsi, ma condividere i timori e cercare aiuti, lasciando da parte quel senso di vergogna (di non essere amata, di aver scelto male, di essere ambivalente) che è spesso la causa prima del silenzio e della disperazione.